Perché ho scelto Pixel 6 abbandonando Xiaomi dopo tanto tempo


Ho perso ormai il conto del numero di smartphone (per non parlare dei cellulari) che ho cambiato nel corso degli ultimi vent’anni. Ricordo che il primo è stato un Nokia E61, che mi ha accompagnato anche in una indimenticabile vacanza nel 2007. Il mio primo contatto con il mondo Android, quello che di fatto mi ha cambiato la vita dal punto di vista della tecnologia, è stato tramite HTC Tattoo che mi ha fatto conoscere il modding e la bellezza del robottino verde.

Ma lo smartphone che forse mi ha fatto prendere una storica decisione è stato HTC HD2. Nato con Windows Mobile 6.5, è stato probabilmente lo smartphone più amato dagli appassionati di modding, visto che era possibile installare una quantità impressionante di sistemi operativi, tutti più o meno funzionanti.

Nei miei tantissimi test ed esperimenti mi è capitato di imbattermi in un porting di MIUI, il sistema operativo che da sempre accompagna gli smartphone Xiaomi. Era la versione 2, molto diversa da quella attuale, ma l’idea alla base della personalizzazione mi colpì fin dal primo momento piantando il seme di un amore che è durato per tanti anni. Dopo qualche parentesi nel mondo Google, con Galaxy Nexus e Nexus 5 (rigorosamente rosso), e un paio di Huawei Mate, sono finalmente approdato nella galassia Xiaomi con il modello Redmi Pro, che è ancora in fondo a un cassetto della mia scrivania.

Da allora si sono susseguiti parecchi smartphone del colosso cinese, da Xiaomi Mi 5s a Redmi Note 4, dal bellissimo Mi MIX 2 a Redmi K20 Pro, per finire in tempi più recenti con Xiaomi Mi 10, che ho venduto la scorsa estate, dopo aver deciso che Google Pixel 6 sarebbe stato il mio nuovo smartphone.

Ho apprezzato le tante novità portate da Xiaomi, che nel tempo ha saputo creare un’interfaccia diversa da quella stock di Android, fino a qualche anno fa decisamente meno appagante dal punto di vista estetico e funzionale rispetto a MIUI.

La mia passione per Xiaomi non si è limitata in questi anni ai soli smartphone, tanto che ho creato un ecosistema per la smart home basato su tantissimi prodotti dell’ecosistema della compagnia di Lei Jun: dalle lampadine ai sensori di movimento, dai pulsanti e interruttori agli hub e prese intelligenti, la mia casa è ancora piena di questi prodotti.

La fine del programma beta

Dovete sapere che da sempre adoro le novità in campo tecnologico, anche software, per cui quando possibile partecipo ai programmi beta per poter avere le ultime novità, a costo di sacrificare la stabilità. Anche con i miei smartphone Xiaomi è sempre stato così: non appena disponibile un programma beta per lo smartphone di turno, aderivo al test e installavo la versione beta di MIUI Global, così da avere le novità ogni settimana, fornendo in cambio i miei feedback nel caso di problemi o malfunzionamenti.

Quando Xiaomi ha deciso di interrompere il programma beta (almeno per la ROM Global), ho capito che le cose stavano per cambiare, anche se ci sono voluti un paio d’anni perché la situazione “precipitasse”. Aggiornamenti sempre meno tempestivi, patch di sicurezza rilasciate in tempi biblici, nuove versioni del sistema operativo disponibili dopo più di sei mesi, e i flagship che venivano abbandonati troppo in fretta per supportare nuovi modelli, rilasciati a un ritmo frenetico.

L’apice è stato raggiunto con Xiaomi Mi 10, che per mesi non ha ricevuto aggiornamenti di sorta, né per quanto riguarda la sicurezza né per quanto riguarda nuove funzioni. Poi c’è stata MIUI 12, con tutti i suoi problemi, e MIUI 12.5 che è stata poco più di una pezza, ed è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

E proprio mentre Xiaomi attraversava uno dei suoi momenti peggiori, almeno dal punto di vista del software, Google toglieva i veli sulla serie Pixel 6, annunciando la presenza di un chipset proprietario e confermando un design unico, che dopo mesi di tentennamenti mi aveva finalmente convinto.

Ci sono voluti pochi minuti, quel 2 agosto, per prendere una decisione drastica: basta Xiaomi, basta attendere aggiornamenti rilasciati col contagocce, basta flagship che restano tali solo per pochi mesi e che vengono rapidamente declassati per finire nel dimenticatoio, il cui destino è quello di ricevere ancora qualche sporadico aggiornamento prima di essere abbandonati definitivamente.

La scelta è stata resa ancora più semplice da una breve parentesi, durata giusto un paio di settimane, avuta con un Pixel 2 XL, che ho adorato ma che ho restituito in quanto rigenerato con componenti non originali, che causavano diversi malfunzionamenti.

Addio Xiaomi

Nonostante mancasse ancora qualche mese alla commercializzazione dei nuovi Pixel, ho preferito liberarmi subito di Xiaomi, per dare un taglio netto al passato, e prepararmi a ritornare nel mondo Google a distanza di parecchi anni da Nexus 5, uno degli smartphone che più ho amato negli anni (e uno di quelli su cui ho maggiormente sperimentato con il modding).

Ci sono voluti quasi quattro mesi, e alcune peripezie con gli store stranieri, prima che riuscissi a mettere le mani sul mio Pixel 6, che ho acquistato nella colorazione Kinda Coral, dicendo definitivamente addio, almeno per quanto riguarda il mondo smartphone, a Xiaomi.

A distanza di cinque mesi da quel giorno devo dire che sono più che soddisfatto della mia scelta, nonostante il debutto dei Pixel 6 non sia stato dei migliori. Il nuovo chipset a quanto pare ha creato non pochi problemi anche a Google stessa, con gli aggiornamenti che non sempre arrivano in contemporanea con i modelli più “vecchi”, una situazione che però è ripagata dalla possibilità di essere iscritto al programma beta ufficiale, per ricevere in anticipo patch di sicurezza e feature drop, oltre alla beta di Android 13 che ovviamente installerò subito a costo di avere problemi di stabilità.

In fondo finora non ho mai avuto alcuno dei problemi che sembrano aver costellato i primi mesi di vita dei Pixel 6: il lettore di impronte è preciso, anche se non velocissimo, la batteria non ha mai tradito le mie aspettative, e anche gli aggiornamenti ritirati non hanno mai creato malfunzionamenti di sorta, giusto qualche freeze temporaneo dopo il primo aggiornamento.

Niente con cui non possa convivere o che possa farmi cambiare idea sulla mia scelta, nonostante stiano già circolando i primi rumor sui Pixel 7.

Basta Xiaomi, ma perché?

Non è stata solo la voglia di cambiare, e la sicurezza di ricevere in modo tempestivo gli aggiornamenti e le nuove versioni di Android, a farmi cambiare idea. Dopotutto ho un sacco di amici che vivono anche con versioni obsolete di Android, e che non si curano particolarmente delle patch di sicurezza, senza che abbiano mai avuto particolari problemi.

Da qualche anno però il comportamento di Xiaomi è cambiato, da quando cioè la compagnia cinese ha deciso di espandere i propri orizzonti, inseguendo i mercati globali e andando a sfidare i grandi marchi che operano nel settore. Complice la drammatica situazione di Huawei il brand si è ben presto trovato a lottare con Apple e Samsung per le posizioni di vertice nelle classifiche di vendita.

E insieme all’espansione globale è arrivata anche la “separazione” di Redmi, che ha cercato fortuna come brand a sé stante, pur rimanendo legato a doppio filo a Xiaomi e a POCO, altro brand che ha voluto rendersi indipendente. Questo almeno sulla carta, perché nella realtà i tre brand si scambiano spesso e volentieri i prodotti, cambiando giusto il nome e qualche piccola caratteristica estetica, al fine di raggiungere il maggior numero possibile di utenti.

Seguendo quella che era stata la politica di Samsung di qualche anno fa, Xiaomi e le sue sorelle, passatemi questo termine per riferirmi a Redmi e POCO, hanno deciso di inondare il mercato di smartphone, nel tentativo di coprire virtualmente ogni fascia di prezzo, dai 100 ai 1.000 euro.

L’idea potrebbe essere vincente, e i dati delle vendite sembrano dare ragione a questa strategia, ma troppo spesso mi ritrovo a fare una confusione tremenda con i tanti, troppi modelli, presentati da Xiaomi.

La cosa peggiore è che spesso uno smartphone con lo stesso nome è completamente diverso a seconda del mercato in cui viene lanciato. E smartphone che sembrano nuovi sono in realtà vecchi di qualche mese, dimostrandosi dei semplici rebrand di altri prodotti già in vendita. Poco conta che abbiano software leggermente diversi (almeno per quanto riguarda POCO), l’interfaccia è sostanzialmente MIUI, con differenze trascurabili e limitate al launcher e poco altro.

In tutto questo Xiaomi ha perso il contatto con gli utenti, che nella prima parte della storia del colosso cinese erano un punto fondamentale, per raccogliere feedback, anche tramite i forum, e migliorare basandosi sulle loro richieste.

Ora invece la tendenza è quella di seguire il mercato, lanciare telefoni con nomi sempre più lungi e ricchi di Ultra, Pro, Plus, senza contare le varianti X, T, S, che creano solo confusione. A rimetterci è stata la parte software, che da MIUI 11 ha visto una involuzione davvero preoccupante, con l’interfaccia che ha iniziato ad avvicinarsi anche troppo a quella stock, perdendo parte della propria originalità per diventare più “occidentale”.

A questo si aggiunge la crescente quantità di annunci pubblicitari, che non tutti gli utenti sono in grado di disattivare in maniera semplice, e che finiscono per peggiorare l’esperienza utente, col rischio di installare applicazioni indesiderate che a loro volta vanno a incidere sulle prestazioni del sistema.

Qualche tempo fa Xiaomi proponeva l’aggiornamento alla versione più recente di MIUI per almeno 4 anni, magari mantenendo una versione più datata di Android ma portando in maniera intelligente alcune delle novità introdotte da Google. Ora invece gli smartphone vengono completamente abbandonati dopo 2-3 anni, almeno per quanto riguarda i modelli di punta, mentre per quelli di fascia media e bassa il comportamento è anche peggiore.

Manca chiarezza sulle politiche degli aggiornamenti: acquistando un qualsiasi Xiaomi/Redmi/POCO l’utente vorrebbe sapere quante versioni di Android riceverà, per quanti anni avrà le patch di sicurezza e ogni quanti mesi riceverà un update. Samsung da questo punto di vista dovrebbe essere presa a esempio da ogni produttore: al lancio di uno smartphone informa chiaramente sul supporto software, e ha predisposto una tabella con la frequenza degli aggiornamenti di sicurezza, che molto spesso superano le promesse.

Xiaomi invece su questo si dimostra ancora troppo “cinese”, troppo alla ricerca dei numeri, delle vendite e del prezzo piuttosto che pensare, come faceva agli albori, a mantenere una base di utenti soddisfatti.

Non da ultimo, almeno per quanto mi riguarda, c’è il discorso mainstream. Mi piace avere prodotti che non siano comuni, ma che possano essere facilmente riconosciuti. Fino a qualche tempo fa i miei amici mi chiedevano se avessi provato il più recente flagship Xiaomi, sapendo della mia passione, ora che Xiaomi e Redmi dominano le vendite anche nei centri commerciali, e che più della metà di amici o conoscenti ha uno smartphone di questo brand, voglio qualcosa di valido ma che non sia di massa.

Addio dunque a Xiaomi? Per quanto riguarda gli smartphone assolutamente si, almeno fino a quando continuerà questa filosofia caotica, con mille prodotti e poche certezze. Continuo però ad amare (e molto spesso odiare) Xiaomi per i suoi prodotti intelligenti: aspirapolvere robot, lampadine, sensori, hub e molto altro, che continuano a essere una parte dominante del mio ecosistema domestico. Perché Xiaomi, quando vuole, è in grado di realizzare ottimi prodotti e supportarli in maniera intelligente, meglio di chiunque altro.

Amore eterno per Google?

Per quanto riguarda gli smartphone invece credo che Google sia destinata a ricoprire un ruolo dominante nel mio futuro. D’altro canto sono stato un fan sfegatato della serie Nexus, proprio per la sua “esclusività”, essendo pensata più per gli appassionati che per le masse. E per ora anche la serie Pixel sembra seguire questa strada, puntando più sulle funzioni esclusive e sulle integrazioni con i servizi di Google, da cui dipendo in maniera quasi ossessiva, piuttosto che sulla potenza estrema. Senza trascurare qualche azzardo estetico, come è accaduto con Pixel 6, in grado di distinguersi tra migliaia di smartphone in commercio.

Il settore hardware non sembra ricoprire un ruolo fondamentale nelle strategie commerciali di Google, che può quindi muoversi liberamente e sperimentare, come con la tecnologia Soli di Pixel 4, sparita dagli smartphone ma “riciclata” in altri ambiti. La creazione di un chipset proprietario conferma la volontà di distinguersi e tracciare nuove vie, che saranno gli altri a dover seguire. Con la serie Pixel 6 Google si è trovata di fronte a sfide impreviste, ma nei prossimi anni potrà permettersi di sfruttare in pieno un hardware pensato per soddisfare le esigenze software, senza compromessi e senza dover puntare solo sulla forza bruta e su numeri impressionanti.

D’altro canto i Pixel sono sempre stati al vertice in campo fotografico pur senza poter contare su hardware all’avanguardia, dimostrando come il software sia il vero fulcro dell’esperienza utente.

Le cose potrebbero cambiare, non sono un veggente e non sono a capo di Google, ma sono pronto a scommettere che nei prossimi anni la mia decisione di abbracciare completamente la filosofia Google, a partire dallo smartphone, saprà darmi un sacco di soddisfazioni, insieme a tanti malumori e grattacapi. Ma d’altro canto questo, almeno per me, è il sale della vita.

 



Vedi Post Originale: https://www.tuttoandroid.net/speciale/editoriali/google-pixel-6-abbandono-xiaomi-944635/


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